Albero tropicale

di Yukio Mishima

 

 

Yukio Mishima parla di Albero tropicale
Albero tropicale 
(Nettaiju), scritto per il teatro Bungakuza nel 1959, contiene nel grado più intenso la mia visione del classicismo a teatro, e questo nel dramma più astratto che io abbia scritto. In esso non solo ho cercato di seguire fedelmente la regola aristotelica delle unità, ma anche di creare una visione astratta del ‘doppio suicidio’ caro a Chikamatsu. Si tratta insomma di una sorta di ibrido, e dubito di essere ancora capace di qualcosa di simile oggi. La prima idea di questo dramma mi venne da un fatto che aveva avuto luogo in Francia, in provincia, e che mi fu raccontato da Asabuki Tomiko, studente di letteratura francese a Parigi. Una donna, che aveva sposato per interesse un uomo vecchio e ricco, si era servita di uno stratagemma tanto audace quanto ingegnoso per impadronirsi dei suoi beni.
Dapprima aveva annodato una relazione incestuosa con il proprio figlio. Poi, dopo averlo ridotto a una semplice marionetta nelle sue mani, gli fece uccidere il padre, simulando un incidente. Così tutte le ricchezze del marito divennero sue. Più tardi si scoprì il delitto. Il dramma mi  aveva impressionato per l’arditezza della concezione, poco comune al giorno d’oggi.
Si poteva interpretare quello che era successo come una manifestazione dell’inconscio collettivo junghiano che, tornando alla superficie come l’acqua sotterranea attraverso una fenditura del suolo, dava al crimine la qualità del mito. Mi sforzai di trasportare questo  banale ‘mito greco del ratto del denaro’ in un contesto giapponese, al fine di soddisfare il mio bisogno di classicismo.
Un primo e semplice espediente avrebbe potuto essere quello di prestare la storia a una famiglia stabilita da lungo tempo nella campagna giapponese. Sfortunatamente nessuno, in Giappone, abita in un castello, e il colore locale, così ridotto, avrebbe rischiato di sommergere il dramma stesso, privandolo di quel carattere astratto cui io miravo. D’altra parte, situare la pièce a Tokyo, o in qualche altra grande città dove i sentimenti implacabili della specie richiesta mancano totalmente, non sarebbe stato meno disperato. Peggio ancora, dato che il Giappone non possiede un’aristocrazia ricca, mi sarei dovuto ridurre nell’ambito molto ordinario di una famiglia borghese, il cui capo avrebbe ricavato le rendite da una società metalmeccanica o da un’altra sciocchezza dello stesso genere. In conclusione, pensai che il solo modo di lasciare alla varietà dei caratteri la loro singolarità e la loro semplicità, fosse quello di scegliere una messa in scena astratta e di affidare al solo dialogo la cura per far funzionare le cose. Così nacque 
Albero tropicale nella presente forma. D’accordo con le mie conclusioni, decisi di servirmi, per scrivere il dramma, soltanto di quello che sarebbe riaffiorato dalla mia memoria.
Uno scorcio delle terre riconquistate di Shibaura, il dolce incoraggiamento a morire dei drammi d’amore-suicidio di Chikamatsu, ricordi di mia sorella che non c’è più, i fiori di un albero corallo visto nella Repubblica Dominicana, una balia della nostra famiglia nella mia infanzia: raccolta in cui, dal primo ricordo all’ultimo, io mi concentravo sulle immagini che riafforavano, fluttuando nella memoria come in un sogno, immagini che sarebbero diventate sostegno e ordinatori delle mie teorie drammatiche.
Il fiore scarlatto dell’albero dei tropici, simbolo del male, proveniva da un viaggio nell’America centrale e meridionale e avrebbe suggerito, secondo le mie speranze, la passione sfrenata e selvaggia che ci mostra il Sud, in opposizione alla rimozione severa delle emozioni del Nord. Man mano che la mia ‘Elettra giapponese’ prendeva forma, il dialogo si avvicinava sempre di più alla poesia. Quello cui tendevo era che la scena fosse popolata solamente di passioni, di passioni vestite di parole. Il tutto doveva essere immerso in un colore da incubo, mentre il draamma essenziale avrebbe mantenuto una chiarezza cristallina.
L’eccellente traduzione inglese di Kenneth Strang mi ha dato un piacere inatteso. Un amico americano tuttavia mi disse che, se il mio dramma aveva qualche possibilità di essere capito in Occidente, non sarebbe però stato apprezzato. E questo per il motivo che 
Albero tropicale è scritto in uno stile espressionista che oggi è passato di moda in Europa e in America, dove la corrente opposta, quella delle tecniche impressioniste di cui Ionesco è l’esempio, è all’ordine del giorno.
Tuttavia, ciò che è fuori moda nel presente si trova invariabilmente all’avanguardia della moda dopo qualche anno, e penso che la versione inglese non dovrà aspettare di più.
Qualche parola a proposito dei ruoli del dramma: Ritsuko è un tipo di puttana vistosa ancora bella e artificialmente conservata, alla quale le emozioni non portano mai la minima incertezza. Per quanto in fondo al cuore possa detestare Ikuko, le conserva tuttavia l’amor materno; benché in fondo al cuore possa desiserare la morte del marito Keisaburo, mantiene tuttavia in rapporto a lui la sua felicità di essere una donna amable e amata. Non è prima dell’ultima scena dell’ultimo atto che ci appare in tutta la sua gloria di fiore del male, in piedi in cima alla scala, nel suo abito smagliante, mostrando – mentre parla – il bel tondo e la bella pelle dei seni. A quel punto le sue parole e il suo portamento devono, in un certo senso, costruire l’apogeo dell’intero dramma; deve diventare una vera incarnazione dell’albero dei tropici. Keisaburo è un monarca contento di se stesso e ogni frase, ogni parola che pronuncia, devono risuonare come un inno alle delizie della sua felicità di vivere. Il suo indiscutibile amore per Ritsuko non consiste in niente di più di un degradante e importuno desiderio fisico. Nonostante tutte le manifestazioni di amore paterno, è fondamentalmente incapace di amare. Ikuko è una giovane donna piena di audacia e di passione che, a dispetto della sua aria di purezza intatta, si rivela la degna figlia di Ritsuko per la potenza del male che esercita su quel buono a nulla di suo fratello. Isamu, smentendo il proprio nome (che significa coraggioso) è un giovane tutto sensazioni, suscettibile e dal cuore debole. Il suo interesse erotico è diviso tra madre e sorella. Non può impedirsi di appartenere al mondo dell’una o dell’altra e, comunque sia, non sfuggirà alla morte che lo aspetta. Nabuko, a prima vista semplice testimone obiettivo del dramma, possiede in realtà la personalità più originale della pièce. E’ lei e nessun altro che sarà la messaggera di cattivo augurio e che farà sentire l’avvicinarsi del destino funesto. Lei che, uscita da un mondo al quale aveva posto fine la morte del marito, si è immersa in quello che del mondo restava per vegliare con devozione sui vivi che l’abitano e per accompagnarlo con il suo lavoro fino a che anche questo si conchiuda a sua volta, e che si conchiuda il dramma. La scena finale, prima della chiusura del sipario, è particolarmente importante. Ritsuko, nelle sue ultime frasi sull’albero tropicale sta essenzialmente dicendo a suo marito: “Ti ucciderò prima che passi molto tempo”. Non c’è bisogno di particolari effetti di luce in scena, ma questo annuncio dell’assassinio che verrà, dovrà creare nel pubblico l’illusione di grandi fiori scarlatti, che riempiono tutto lo spazio con la loro trionfale fioritura.    
(Y. M.)

 

Albero tropicale fu scritto da Mishima nel 1959, undici anni prima del suo drammatico suicidio nella sede del quartier generale dell’esercito, azione che scatenò in Giappone e all’estero vivacissime polemiche di natura politica e sulla figura artistica ed umana dello scrittore e che è ancora oggi argomento di discussione.

Più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, Yukio Mishima viene considerato il più grande scrittore giapponese del ventesimo secolo, ed è certamente il più noto al pubblico occidentale.

 

regia
Kuniaki Ida

rielaborazione drammaturgica
Walter Valeri

con
Maria Grazia Bon, Alessandro Ferrara, Gianni Mantesi, Carla Monti, Annig Raimondi

scene
Carlo Cioni

costumi
Gillian Armitage Hunt

musiche
Ruggero Laganà

luci
Fulvio Michelazzi

aiuto regia
Micaela Palieri

realizzazione scenografica
Giorgio Menegardo, Renzo Pardini

sarta
Gabriella Zellini

organizzazione
Ruggero Dimiccoli, Francesco Dini

in collaborazione con l’Istituto giapponese di cultura di Roma