Il gioco dell’epidemia
di Eugène Ionesco
Eugène clown e sciamano
Il Gioco dell’ Epidemia si può definire come il gran varietà della morte: un variopinto mosaico, una commedia in frantumi, un bizzarro e sorprendente cabaret composto di venti e più quadri, con cento e più personaggi, in cui i fili delle vite si spezzano a sorpresa a causa di una misteriosa epidemia che imperversa mietendo vittime senza logica alcuna. Scritta nel 1969, la commedia trova i suoi più evidenti riferimenti nell’opera di Camus (La Peste) e di Daniel Defoe (Diario dell’anno della peste). Ionesco fu a lungo incerto tra diversi titoli: La Catastrofe, La Peste, Epidemia, L’Epidemia in città, Il Trionfo della morte o la Gran Commedia del Massacro. In Francia venne rappresentata col titolo Jeux de Massacre. In questa commedia l’autore si diverte a moltiplicare le prospettive, come se la morte si esibisse in una galleria di specchi dando in spettacolo gli innumerevoli riflessi delle sue malefatte e mettendo in luce assurdità e incongruenze, meschinerie e magnanimità. La pluralità delle prospettive proviene anche dal diverso significato che i personaggi attribuiscono alla morte. Dice un ricco borghese: “…i malati, i morenti e i morti sono o sono stati imprudenti. E’ sufficiente non mescolarsi alla folla…. “, e un ideologo: “… non si tratta di discutere le cause, ma il significato della malattia. A chi rendono tutti questi morti?”; un medico: ”…si muore per ignoranza. Se ci si attenesse ai precetti della medicina, per filo e per segno, nessuno morirebbe”, e un vecchio, teneramente, alla vecchia moglie: “…la felicità era a portata di mano. Non me ne ero accorto. Vieni, bambina mia, io ti conduco e tu mi porti nella tua notte”. In questa commedia-farsa il verbo “morire” è coniugato in tutte le persone nel modo irrisorio del gioco al massacro. L’umanità, folla sterminata e variopinta, è composta, come in Jarry, di fantocci o burattini. La morte li colpisce quale che sia la loro età, condizione sociale, virtù o debolezze. Da un punto di vista formale le situazioni, i luoghi e le modalità del dramma sono molteplici, i personaggi sono a una dimensione, il concatenarsi delle scene sfrutta più la rottura che la continuità. Questa forma privilegia il ritmo, la varietà e la sorpresa come potrebbe farlo uno spettacolo di cabaret. Considerato nella sua globalità, Il Gioco dell’Epidemia può essere definito lo spettacolo caleidoscopico della morte, colta sotto tutti gli aspetti, con commozione e derisione.
UNA COMMEDIA NOIRE
In una città non chiaramente identificata e in un’epoca altrettanto indefinita, ma potremmo essere ai giorni nostri, un bel giorno, così all’improvviso, senza che ce ne sia la minima avvisaglia, si scatena una furibonda epidemia. Non si sa di che si tratta, ma fatto si è che le persone muoiono come mosche, ‘a casaccio’. Siamo di fronte ad un tema antico e moderno, sempre attuale, oggi sentito più che mai. Come si comporteranno i nostri simili di fronte a un fenomeno che supera l’immaginazione?
Ionesco scatena in questa commedia la sua migliore fantasia. Immagina una serie di situazioni e di personaggi che possono appartenere a tutti i tempi e a tutti i luoghi. Indaga la natura umana là dove essa meglio si rivela: di fronte all’inevitabile. Rivolta la vita quotidiana guardandola alla lente dell’inesorabile. Ne consegue una grandiosa visione della commedia umana. Tutti sono riconoscibili. Lì dentro ci siamo anche noi e i nostri conoscenti. Tragico, sinistro, horror, farsa e comico si mescolano. Siamo in una nuova Commedia dell’Arte.
Scritta nel 1969, la commedia trova i suoi più evidenti riferimenti nell’opera di Daniel Defoe e di Camus. Ma non mancano impliciti richiami ai trionfi della morte e alle danze macabre medioevali che tanto hanno condizionato letteratura ed arte figurativa.
Per il titolo l’autore fu a lungo incerto tra: La Catastrofe, La Peste, Epidemia, L’Epidemia in città, Il Trionfo della morte o la Gran Commedia del Massacro. In Francia venne rappresentata col titolo Jeux de Massacre. Negli ultimi anni lo studio delle epidemie e del loro impatto sullo sviluppo e sui cambiamenti sociali ha conosciuto un grande interesse. Quello che prima ispirava letterati e scrittori è ora all’attenzione di storici e scienziati. Ionesco è poeta e come tale ha affrontato il tema in modo visionario ma questa visione, come ogni valida opera di poesia, ci parla della realtà come e più chiaramente della realtà medesima.
Si assiste di questi tempi a un interessante fenomeno artistico, nei musei di Parigi, Bilbao, Barcellona… Spazi espositivi contemporanei dalle strutture estremamente lineari, sono dedicati agli anni pop. L’evidente contrasto tra queste architetture e quelle pitture e sculture forma un tutt’uno armonico che, mentre storicizza due movimenti ugualmente presenti alla mia generazione, li mette in reciproco valore. Qualcosa del genere, trasposto, aleggia anche nella commedia, o farsa, di Ionesco. La città muta, ma è popolata da un insieme di objets touvés umani, di eterne maschere, di paccottiglia di opinioni e idee, di luoghi comuni messi in evidenza, coloratissima e imprevedibile, e non ha poi l’aria di troppo mutare per davvero, almeno dai tempi di Aristofane.
Sì, la cosa è disperante, ma fa pure ridere. E la morte che viene a passare così massicciamente per quella contrada non è la giustiziera che molti sperano, ma la morte e basta e fa le cose a modo suo. Alla fine, come sempre accade, ognuno è prigioniero del proprio carattere e delle proprie idee. Ma non sarebbe tanto diverso se fosse altrimenti. La commedia è davvero un’alta forma drammatica: mostra allegramente l’umanità e il suo risvolto risibile, la tragedia di essere mortali e il comico che ad essa si accompagna.
Nel nostro allestimento tutto si svolge lungo una strada, quando siamo all’aperto, e in lunghi corridoi, le strade delle nostre case, quando siamo all’interno. Luoghi di passaggio nei quali si recita emblematicamente la breve scena madre della vita. Si entra, si gioca la propria parte, si muore e si esce, di vita e di scena. Si passa, appunto.
Come vuole Ionesco, la morte celebra di persona i suoi trionfi e la sua danza macabra, alla quale finiscono per partecipare tutti i personaggi, mano a mano che la loro vicenda si conclude. Ma danza è, e su tutti i contrasti, le passioni, e i tumulti dell’esistenza prevalgono un allegro scampanio e un festoso movimento.
LA RESPONSABILITÀ DI TRADURRE
Tradurre per il teatro comporta una doppia azione. Si deve infatti pensare contemporaneamente a due interlocutori: i lettori della pièce da una parte e gli attori e il pubblico dall’altra. Non si parla la medesima lingua con gli uni e con gli altri, non si scrive come si parla, non tutta la lingua scritta è dicibile e non tutta quella dicibile è scrivibile. Il traduttore si trova frequentemente in mezzo a un guado. A chi rivolgersi? A chi dare la priorità?
D’altra parte, tradurre, quando si ha padronanza della lingua originaria, è un lavoro estremamente ricco. Consente di entrare nella pelle l’autore, di sentirne il respiro, di rivivere alcuni processi della sua mente, della sua fantasia. Capita, traducendo, di udire i suoni che udiva l’autore, di vedere i personaggi come gli apparivano, di ascoltare come gli parlavano; si percepisce la pièce così come si manifestava ai suoi sensi. Si capisce qualcosa di quello straordinario processo che appartiene all’autore soltanto: dare vita a un mondo e condurne le vicende dall’inizio alla fine.
Quali sono state le mie scoperte traducendo ‘Il gioco dell’epidemia’? Penso che Ionesco abbia visto questa pièce concretamente materializzata davanti a sé. Di essa, alcuni personaggi gli si sono presentati in carne ed ossa, padroni di un linguaggio ben preciso. Se ne possono perfino udire accento e inflessione, vedere portamento e abbigliamento. Altri personaggi invece si lasciano vedere solo vagamente, li si sente piuttosto vociare, tutti insieme. La lingua in questi casi si fa confusa, generica, come se si cogliesse solamente un indistinto brusio di frasi sovrapposte. Lì il traduttore deve farsi largo a colpi di tentativi e di intuizione, il fraseggio essendo più casuale. Altre volte poi arrivano solo frasi colte al volo, in mezzo al vocio della folla. Sembra in questi casi che ciò che l’autore ci consegna siano spunti, materiali quasi grezzi, da dirozzare e sistemare.
La lingua, le parole, il fraseggio, il ritmo, il suono e i suoni, l’azione (molti i suggerimenti delle didascalie) che è già una musica di per sé, tutto materiale da tradurre e trasporre, da trasformare in parola scritta e in parola detta. Ecco che tradurre vuol anche dire prendere decisioni, assumersi responsabilità.
Marina Spreafico
La danza macabra era originariamente una specie di commedia teatrale simile a quelle morali inglesi. Se ne ritrovano tracce già dalla metà del XIV secolo. Il genere teatrale allora sviluppatosi portava a trattare il tema della morte in forma drammatica. In queste recite la morte non appare come distruttrice, ma piuttosto come la messaggera di Dio che raccoglie gli uomini dietro la tomba. Il genere con personaggi danzanti si è sviluppato più tardi. In un primo momento la morte e le sue vittime si muovevano lentamente con portamento nobile e dignitoso. Ma la morte, interpretando la parte del messaggero come si usava in quegli anni, radunando suonatori e musicanti, diede origine alla danza macabra. Lo scopo di queste commedie era di far prendere coscienza a tutti gli uomini della ineluttabilità della loro fine in modo che potessero prepararsi prima del giudizio. La scena dove si svolgeva la rappresentazione teatrale era di norma un cimitero o l’interno di una chiesa. Gli spettacoli iniziavano con un sermone incentrato sulla morte tenuto da un monaco. Alla fine del sermone uscivano dall’ossario, normalmente situato nel cimitero della chiesa, una serie di figure vestite nelle tradizionali maschere della morte, disegnate con linee giallognole, così da dare le sembianze di uno scheletro. Una di esse designava la vittima designata ad accompagnarla nella tomba. La prima vittima era di solito il papa o l’imperatore. L’invito non veniva accolto con favore e per varie ragioni veniva declinato, ma queste giustificazioni venivano trovate insufficienti e alla fine la morte conduceva via la vittima. Un secondo messaggero prendeva per le mani una nuova vittima, un principe o un cardinale, che era seguito da altri rappresentanti delle varie classi sociali. Normalmente questi personaggi erano 24. La morte è spesso rappresentata con degli strumenti musicali che evocano la tentazione, il diabolico incantamento del potere della musica. La campana è già stata suonata e tutta la gente si unisce nella danza. Al termine della rappresentazione seguiva un secondo sermone. Le più antiche tracce di queste scene sono state trovate in Germania, ma testi simili sono stati rinvenuti anche in Spagna fin dal 1360. Si possono leggere testi di rappresentazioni similari anche in Belgio, Francia, Inghilterra. Prima della nascita della danza macabra esisteva un genere chiamato Vado mori, fin dal XIII secolo. Un prologo sottolineava la certezza della morte, seguivano poi le ultime frasi di undici morenti (il re, il papa, il vescovo, il cavaliere, il fisico, il logico, il ragazzo, il vecchio, il ricco, il povero, il pazzo). In Italia accanto alla tradizionale danza macabra, troviamo delle interessanti rappresentazioni della morte vista come conquistatrice, dominatrice e per questo motivo definite Trionfo della morte. L’iconografia del Trionfo della morte nasce con il diffondersi della peste intorno alla metà del XIV secolo e dell’alta mortalità che le epidemie provocarono. La peste introduce un nuovo aspetto nelle raffigurazioni. La morte è descritta scheletrica e crudele, armata di falce, si abbatte sugli uomini e colpisce senza riguardo all’età, al rango sociale e alla condotta morale. La Danza macabra presenta certe affinità con i cicli orientali, dove fa parte degli spettacoli teatrali tenuti in occasione di cerimonie buddiste. Ancora pochi anni fa il tempio lamaico di Pechino conservava maschere a forma di cranio e vesti dipinte con scheletri. Ha anche un’incontestabile analogia con temi antichi, in cui gli scheletri sono costantemente associati a scene che celebrano il piacere dei sensi e la gaiezza. Il Satyricon racconta che sulla tavola del festino di Trimalcione venne portato uno scheletro d’argento, articolato, che faceva contorsioni grottesche per incitare gli invitati alla gioia di vivere.
“In questo mondo, a volte, mi pare di essere a teatro. Sono rari momenti di pace. Tutto ciò che mi circonda è spettacolo. Spettacolo incomprensibile. Spettacolo di forme, di figure in movimento, di linee di forza che si oppongono, si spezzano, si annodano, si snodano. Che strana macchineria! Non tragica, ma stupefacente. Forse comica, certamente derisoria. Eppure alla lunga sono preso da un certo dolore, da uno strano strazio. Che sorpresa che le cose esistano, e gli avvenimenti, e le passioni, e i colori, e i dolori della notte e del giorno, così precari, trasparenti, inafferrabili: frutti del nulla”. Ionesco, 1953
traduzione e regia
Marina Spreafico
con
Maria Eugenia D’Aquino, Luca Fusi, Francesca Lolli, Riccardo Magherini, Vladimir Todisco Grande, Marina Spreafico
spazio scenico
Massimo Scheurer
musiche
Giulio Castagnoli, Sandro Gorli
oggetti di scena
Nicolas Steinert
luci
Fulvio Michelazzi
regista assistente
Valentina Colorni
direzione tecnica
Piera Rossi